Bolzano, 7 marzo – Privato è bello? Sempre più lavoratori iniziano a pensare di no.
È di questi giorni la notizia che in Alto Adige è in corso un vero e proprio esodo di dipendenti dalla Sad a Trenitalia.
Motivo di tale diaspora? Gli stipendi erogati da Trenitalia sono superiori di circa il 25% rispetto al quelli della Sad, e, inoltre, sono minori i carichi lavorativi. Infatti, Trenitalia paga 14 euro dopo tre ore di lavoro, mentre la Sad solo 3,5.
Immediatamente sono iniziati a echeggiare i lacrimosi lai del direttore generale dell’azienda, che accusa Trenitalia di poter elargire queste cifre perché tanto poi paga “Pantalone”. Cifre che la Sad non può permettersi perché «deve rimanere sana all’interno del mercato», così come ha dichiarato al quotidiano “Alto Adige”. Preoccupazione che però la stessa Sad non manifesta quando si tratta di sborsare i 260 mila euro dello stipendio del direttore stesso, che, col cipiglio di un Cottarelli in grande spolvero, afferma che, pagando di più i lavoratori, Trenitalia non fa altro che incrementare il debito pubblico italiano e di fare “dumping” industriale a spese dei contribuenti.
A questa visione vogliamo opporre quanto scritto, il 7 agosto 2018, dall’economista Francesco Saraceno sul sito web della rivista il Mulino. Saraceno afferma che i difensori dello status quo: «Continuano a proporre una visione dell’economia semplicistica, quasi meccanica, che in quanto tale tende ad essere universalistica. Ci fu proposta l’austerità come unica possibilità ai tempi del governo Monti, perché l’economia era in crisi. E ci viene proposta oggi come unica possibilità perché l’economia si riprende, e sembra quasi che l’unica zavorra per un paese in cui i colli di bottiglia sono centinaia (pubblici e privati) sia costituita dal debito pubblico».
Ricordiamo che è la domanda aggregata che determina il Pil, e che la domanda aggregata si origina dall’acquisto di beni e consumi da parte dei cittadini; dalle imprese che chiedono investimenti; dalla spesa pubblica; e dalle esportazioni.
Da ciò si deduce che anche ogni euro di spesa pubblica va a creare il Pil, cioè la ricchezza del Paese. Al crescere della ricchezza nazionale cresce il tenore di vita e quindi crescono i bisogni dei cittadini, la cui domanda di beni e servizi è direttamente proporzionale al reddito. L’incremento dei consumi si dilata dunque all’aumentare dei redditi. Aumenta così la propensione marginale al consumo (PMC), cioè quel valore che ci dice quale percentuale di ciò che guadagniamo viene destinata all’acquisto di beni e servizi.
La domanda aggregata è dunque formata anche dalla spesa pubblica, che secondo Keynes è il modo con cui lo Stato deve intervenire nel mercato in caso di recessione, disoccupazione o sottoccupazione.
Inoltre, a ogni euro di spesa pubblica, il Pil viene incrementato di più di un euro, perché viene provocato un effetto positivo anche sui consumi, che sono legati al reddito. In pratica vi è un moltiplicatore del reddito [(M = 1: (1 – PMC)], che, ad esempio in presenza di una PMC di 0,3 e di un aumento di spesa pubblica di 100 milioni, permette di vedere aumentato il reddito di 142,85 milioni.
Ciò con buona pace di tutti i pasdaran dell’economicamente corretto, che vivono all’interno della parodia dell’incubo di un contabile, di keynesiana memoria.
Eriprando della Torre di Valsassina