La rubrica di PostaCerere

Bolzano, 29 settembre  – Per rilanciare l’Italia esiste una sola possibilità, partire dal mondo del lavoro. Parlare di lavoro, ma soprattutto di tutela dei lavoratori è sempre difficile. Inoltre pregiudizi storici e la vulgata editio vuole che a parlarne siano solo i soliti amici che si identificano con la nuova élite liberal-socialista o con la pseudo sinistra globalista; per tutti gli altri deve essere un argomento tabù. Senza essere ingenerosi, da un certo punto di vista, non hanno tutti i torti se si guardano solo i vertici dei sindacati che comunemente vengono associati alla destra. Diciamo che sono stati spesso sindacati conservatori, sicuramente non rivoluzionari, con molte derive filo atlantiste, filo liberiste, filo sioniste e nei periodi di maggior contrasto più vicini al servilismo delle guardie bianche che alla tradizione storica del sindacalismo rivoluzionario del ventennio. Sindacalismo rivoluzionario che combatte in egual modo il principio di concorrenza assoluta del capitalismo che il principio del intervento assoluto dello stato. Sono entrambe le facce della stessa medaglia, dove alla fine chi si ritaglia spazio sono solo delle oligarchie a sistema chiuso, da un lato con le élite finanziare globaliste e dall’altra con la nomenclatura partitica di stampo bolscevico. In tutta questa degenerazione burocratica e deriva debitoria si perdono così di vista le dinamiche socioeconomiche reali. Però nei mie ricordi ho anche una base sindacale unita. Ci sono stati confronti aspri e sinceri, ma solo ed esclusivamente nell’interesse dei lavoratori. Quindi bisogna ripartire da qui. Ora il problema si pone più sul piano d’azione che devono avere i lavoratori e i sindacati in questo contesto storico, perché ci troviamo difronte ad una inconsueta alleanza di governo in un mondo dove il Leviatano del globalismo ha vinto. Il fatto che un ex ministro degli Interni abbia convocato le sigle sindacali nel suo dicastero e non il ministro del lavoro ci fa capire che il normalismo salviniano (cit. Davide Di Stefano) aveva raggiunto il suo apice. Normalismo Salviniano, nel senso che Salvini con questa Lega non si può definire sovranista o altro. La sua politica è semplicemente del pragmatismo social perché il suo fine è guidato dal buon senso dell’uomo comune che si avviluppa nei social con fotine durante la colazione, un tweet sulle ONG, un aperitivo social, like sparsi, video in gattili e conclude la giornata con gli auguri della buona notte con sottofondo musicale. Il cancelliere germanico Ludwig Erhard era solito dire che un uomo politico che annette l’importanza solo all’oggi e considera il pragmatismo come una dottrina politica, a lungo andare è destinato a fallire; io aggiungo con quali conseguenze e per chi? Anzi aggiungo pure che io non ho mai sentito parlare Salvini con termini aulici quali Patria, Nazione o con qualsiasi altro valore con il quale lui si identifichi con la nostra amata storia dell’Italia. La simbologia leghista della prima ora è ancora tutta presente nel suo repertorio, la spilletta di Alberto da Giussano alla parata del 2 giugno 2019 non ce la scordiamo. Ma torniamo a che funzione deve avere il sindacato in questo momento, perché se il ministero degli interni invece di occuparsi di ordine pubblico convoca le sigle dei lavoratori due sono le considerazioni. La prima evidente considerazione è che il ministero del lavoro latita nella sua funzione, e questo lo si poteva immaginare, la seconda è che si voglia assopire il malcontento dei lavoratori attraverso un nuovo normalismo fatto esclusivamente di ascolto e compromessi al ribasso per l’immediato. Nessuna visione in prospettiva e nessuna visione sul futuro, difatti questa compete ad un governo che si definisce quanto tale. Non sto dicendo che è un bene o un male, semplicemente è un fatto. Ma se questo dato viene inserito in un contesto internazionale, il rischio, quasi certezza, è che chi ha programmi e progetti ci superi o nella peggiore delle ipotesi ci mangi in un sol boccone. Basti guardare gli investimenti della Cina in giro per il mondo. La debolezza del normalismo salviniano sta proprio qui, nell’assenza di prospettiva. Fare progetti per il futuro significa avere una visione d’insieme che rafforzi tutta l’economia nazionale e non la frammenti in piccole economie provinciali che ci permettono solo una crescita dello zero virgola. Per far si che l’Italia cresca con numeri interi c’è bisogno di un progetto nazionale che superi le differenze del passato e proponga nuovi paradigmi all’altezza di questo secolo. Questa classe politica si dimostra non diversa da quelle precedenti; non avendo una prospettiva lungimirante assaporano la celebrità del momento e ne fanno un mantra senza senso, così è stato per Berlusconi, per Prodi, per Renzi, per Salvini e ora per Conte. Ognuno coi propri pregi e coi propri difetti ma nessuno da esempio. Per far questo bisogna riprendere quel percorso interrotto, di cambiare i modelli organizzativi nel mondo del lavoro. Basta con lo strapotere della finanza che non fa altro che acuire egoismi e ingiustizie. C’è bisogno di un passo antropologico enorme e indubbiamente difficile da realizzare per le menti pavide e vili, dove l’attribuzione della sovranità viene data a tutti coloro che lavorano all’interno di una azienda. Investire di potere chi lavora significa anche corresponsabilità nelle decisioni e oggettività nelle valutazioni e non un solo semplice pretestuoso baratto tra salario e lavoro. La partecipazione è dunque il modello di sviluppo rivoluzionario a cui bisogna aspirare, non per niente era già previsto nel Manifesto di Verona della Repubblica Sociale Italiana, quando si metteva nero su bianco la socializzazione dell’industria. Adesso invece ci troviamo in una società dove la partecipazione l’abbiamo esclusivamente al momento del consumo.

G.L. Cerere

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